Ghost Of Yotei: La Recensione

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ghost of yotei ci fa immergere nei suoi scenari e nella sua musica in un video cover68bed6aacec14 9a3af 

Vendetta, ghiaccio e acciaio: il ritorno del samurai fantasma è più profondo, più spietato e ancora più stilizzato. Sucker Punch rilancia l’eredità di Tsushima con un’opera che affonda le radici in una nuova geografia e in una protagonista più brutale. Il risultato? Un gameplay più stratificato e un’esperienza che si scrolla di dosso i limiti dell’estetica per abbracciare una direzione più meccanica, precisa, e consapevole.

Il peso della katana e la leggerezza dell’ombra

Chi ha amato Ghost of Tsushima per il suo mix tra eleganza estetica e solidità meccanica troverà in Ghost of Yōtei una continuazione naturale, ma non priva di sterzate. Fin dai primi minuti, il gameplay suggerisce un cambio di ritmo e tono: Atsu, la nuova protagonista, non è un guerriero dell’onore in bilico tra codici morali, ma una figura crepuscolare, una sopravvissuta al massacro della propria famiglia a opera di Lord Saito, traditore degli accordi con lo shōgunato e nuovo signore de facto del nord. Ambientato circa 300 anni dopo gli eventi di Tsushima, Yōtei si inserisce in un periodo di instabilità interna nel Giappone feudale, dove le province settentrionali dell’Ezo vengono abbandonate alla legge dei clan locali. Atsu, un’ex serva sopravvissuta per caso e cresciuta nei boschi da un vecchio monaco cieco, non ha alcun titolo, né blasone: la sua vendetta non è dettata dall’onore, ma da un’urgenza personale e animalesca. Questo spostamento narrativo influenza profondamente il sistema di gioco. Il cuore dell’esperienza rimane il duello, ma stavolta la pluralità delle armi modifica la grammatica dell’ingaggio. Se in Tsushima si trattava per lo più di leggere le stance e rispondere con precisione, qui ogni arma comporta un ritmo e un'intenzione specifica: la spada pesante spezza le difese ma costringe a movimenti più lenti e ponderati, mentre le katane doppie trasformano lo scontro in un flusso incessante, quasi danzato. Le nuove meccaniche di disarmo e le finestre di parata più strette restituiscono una sensazione di tensione costante: ogni errore ha un peso, ogni vittoria è meritata.

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Le boss fight, più numerose rispetto al capitolo precedente, esigono lettura del pattern, tempismo e gestione dell’ambiente. Non c’è spazio per il button mashing: anche in modalità normale, il combattimento punisce l’approccio disattento e richiede una consapevolezza dello spazio e del tempo simile a quella vista in giochi più action-oriented come Sekiro — pur mantenendo una filosofia open-world più permissiva.

Sul versante stealth, Ghost of Yōtei non si reinventa ma ristruttura. Gli strumenti a disposizione sono simili a quelli di Jin Sakai — bombe fumogene, sonagli, kunai, dardi avvelenati — ma l’implementazione è più organica: l’IA nemica si muove in pattugliamenti credibili, reagisce ai rumori ambientali, e cambia schema in base all’orario e alle condizioni climatiche. Il passaggio da stealth a combattimento è immediato, privo di frizioni, e consente di modificare in corsa la propria strategia. Tuttavia, è chiaro che il team abbia deciso di non privilegiare lo stealth in modo assoluto: non esistono ricompense maggiori per chi elimina senza essere visto, né si incentiva eccessivamente l’approccio non letale. Lo spettro che Atsu incarna non è un ninja, ma un predatore: il gameplay lo chiarisce con brutalità.

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